Silvio Berlusconi Chiamatela “opzione tre”. È sul tavolo di Silvio Berlusconi e Walter Veltroni e sta velocemente risalendo la classifica delle possibili soluzioni al rebus della riforma elettorale. Soprattutto se al vertice di maggioranza del 10 gennaio 2008 dovesse mancare l’accordo tra i nanetti e il Partito democratico (opzione uno). E se il referendum elettorale dovesse fallire o portare alla crisi di governo (opzione due).
A questo punto, l’opzione tre è la soluzione finale. Negata ufficialmente dai leader, è custodita nella borsa diplomatica degli “inviati” che stanno discutendo la riforma: un governo di larghe intese sostenuto da Forza Italia e Pd e “aperto a chi ci sta a cambiare le regole” spiegano fonti bipartisan. I numeri, i freddi numeri, sono sempre il miglior argomento per concretizzare un’idea. Alla Camera azzurri e democratici contano 329 deputati su 630; al Senato i calcoli sono più complessi, ma il risultato non cambia, il totale fa 176 su 315: la maggioranza c’è grazie a partiti e senatori satellite.
Ma questa sarebbe interpretata come un’iniziativa unilaterale, mentre il Quirinale auspica da sempre il multilateralismo. Emanuele Macaluso, da una vita vicino al capo dello Stato, spiega a Panorama: “Sono convinto che l’unica soluzione possibile, e a mio avviso auspicabile, sia un governo istituzionale, non promosso solo da FI e Pd”. Perché? “Perché avrebbe contro non solo il pezzo del Pd riferibile all’attuale presidente del Consiglio, ma anche altre forze. Invece un governo presieduto da una persona che ha consenso ed è gradita ai due schieramenti, un esecutivo a cui non devono fare riferimento solo i due partiti, può arbitrare le riforme”.
E la data delle elezioni? “Bisognerebbe fissarla dopo aver riscritto la legge elettorale e alcune piccole riforme costituzionali e regolamentari, queste ultime forse più importanti di tutte le altre” chiude Macaluso.
Ma fuori dai partiti maggiori chi potrebbe caricarsi sulle spalle il peso di dare una mano all’impresa? Rifondazione comunista. Fausto Bertinotti non ha mai nascosto la possibilità del governo istituzionale come soluzione di una crisi. E Rifondazione ha anche bisogno di una svolta che faciliti la nascita della Cosa rossa. Sia chiaro però, dicono a Panorama fonti qualificate del Prc, “si tratterebbe di un appoggio esterno”.
Poi c’è la Lega di Umberto Bossi. Vuol mantenere le sue roccheforti al Nord e conquistare una riforma che salvi i partiti regionali o macroregionali come il Carroccio.
An e Udc non potrebbero stare a guardare, devono tutelare i propri interessi elettorali e comunque, dice il vicepresidente centrista del Senato Mario Baccini, “le larghe intese sono un’ipotesi che va bene se serve a fare le riforme, risanare il Paese e portarlo fuori dalle nebbie. Così diventa una strada doverosa da percorrere”.
Baccini pone traguardi difficili, eppure meno ambiziosi di quelli a cui fa esplicito riferimento un politico equilibrato come Giorgio La Malfa: “Meglio se l’accordo venisse raggiunto presto, per farlo destra e sinistra dovrebbero ciascuna sacrificare una cosa”. Che cosa? “La sinistra il governo Prodi e la destra la richiesta di tornare alle urne subito. Se questo avvenisse, avremmo 3 anni da qui al 2011 per lavorare nell’interesse del Paese”.
Un’alleanza larga e pure di legislatura appare francamente remota, ma certo non è casuale che la discussione sull’opzione tre stia prendendo il largo proprio nel momento in cui emergono gli ostacoli al dialogo tra Veltroni e Berlusconi.
Le resistenze degli alleati, piccoli interessi di parte e oscure manovre intorno alla Corte costituzionale (ancora priva del plenum), per farle respingere il referendum, alimentano lo scetticismo sul tentativo “veltrusconiano”.
Così, dopo il primo atto recitato in chiave idealista, potrebbe arrivare il secondo interpretato sul canovaccio realista.
Chi sono i realisti? Quelli che vogliono “senza se e senza ma” far valere i rapporti di forza dentro le coalizioni, per scomporre e ricomporre il quadro politico italiano. È chiaro infatti che Veltroni e Berlusconi si stanno giocando, se non tutto il patrimonio politico, certamente parecchio in termini di proiezione nel futuro. Né il primo né il secondo possono permettersi di uscire azzoppati dalla trattativa. Soprattutto se saranno i cespugli dell’orto botanico unionista a dettare l’agenda. Le leadership dei grandi ne uscirebbero a pezzi.
Dunque, se tutto va male, se nani e nanetti fanno la faccia feroce, se la Consulta si fa intimorire e il referendum va a carte quarantotto, cosa può restare alla strana coppia del dialogo? L’opzione tre.
“Se il referendum non fosse più in campo, e io farò di tutto affinché lo sia, è chiaro comunque che la possibilità di andare al voto è remota” dice a Panorama Giovanni Guzzetta, presidente del comitato promotore del referendum. “Al punto in cui siamo però è evidente che lo schema classico di coalizione così come l’abbiamo conosciuto finora è saltato. C’è un incentivo a fare una riforma che disegna un sistema bipartitico e per arrivarci la soluzione più logica è quella del governo tecnico-istituzionale”.
È ancora presto per veder fiorire dalle labbra dei protagonisti, Berlusconi e Veltroni, una simile ventura. Ma più girano le lancette dell’orologio costituzionale, più cresce l’esigenza di prendere in considerazione la soluzione finale, gradita a molti, dentro e fuori dalle Camere. Dentro il Parlamento, da Lamberto Dini a Giulio Andreotti e a tanti altri, mentre cresce l’insofferenza veltroniana per i grandi ricatti dei piccoli partiti (”A volte vedo richieste infantili di chi dice o facciamo così o…”, si lamenta il leader democratico). E fuori dal palazzo?
Qui l’opzione tre non è vista come una speranza ma come l’ultima possibilità per il cambio di passo dell’Italia. La chiedono gli industriali, il mondo della ricerca e della scuola, le istituzioni finanziarie globali preoccupate per la stabilità dell’area euro, minacciata seriamente da un Paese incapace di decidere e fanalino di coda della crescita europea.
Troppi hanno dimenticato che fu il quotidiano della City, il Financial Times, a proporre per l’Italia la große Koalition. E nessuno sembra curarsi dell’immagine disastrosa dell’ex Belpaese (vedere l’articolo del New York Times sull’Italia depressa e le ultime statistiche dell’Eurobarometro sul pessimismo degli italiani proiettato sul 2008, il dato peggiore d’Europa).
Un grand commis di Palazzo Chigi commenta: “Il governo è la linea del Piave di chi non vuole l’accordo tra Berlusconi e Veltroni. Siamo ormai all’accanimento terapeutico e ben al di là del grottesco. Se naufraga tutto, il governo di larghe intese è l’ultima speranza. Ma ci vuole grande coraggio, più da parte di Veltroni che di Berlusconi”.
Perché Veltroni ha bisogno di farsi coraggio? Perché non manovra la truppa parlamentare e Massimo D’Alema sta cercando di dettare le sue regole di ingaggio nel Partito democratico. Basta osservare le mosse dei “gemelli diversi”.
Walter lancia i circoli all’americana e dunque un modello di partito leggero? Max rilancia sul congresso e sulle tessere, come a dire che i dalemiani si ribellano all’idea del partito carismatico e vogliono contarsi. Partito pesante. I gruppi parlamentari sono di fatto governati dagli uomini del ministro degli Esteri, la capogruppo del Senato Anna Finocchiaro è una star dalemiana. E i ministri diessini sono più dalemiani di D’Alema.
Gli ottimisti dicono: c’è sempre la strada del referendum. Ammesso che la Consulta dia il via libera, resta il problema della “maionese impazzita”. Ovvero il momento in cui i piccoli partiti decideranno che è meglio staccare la spina a Prodi piuttosto che farsi esiliare nel limbo dell’inutilità. Gli ottimisti, sempre loro, aggiungono: a quel punto si vota. Sbagliato. I piccoli partiti sperano di poter dettare l’agenda della crisi, facendosi forti del fatto che le elezioni anticipate sarebbero remote. Proprio qui torna in campo l’opzione tre.
A Veltroni e Berlusconi conviene trovare un accordo tra Pd e Forza Italia o lasciare il campo libero agli strepiti dei micropartiti? È un rebus a soluzione certa. Il Quirinale, già fautore del dialogo, da sempre richiama le sue prerogative costituzionali: per tornare al voto deve mancare una maggioranza nelle Camere. E una maggioranza può ricostituirsi in vari modi: una riedizione pentapartitocratica, da Prima repubblica, oppure un governo di grande coalizione ispirato da Partito democratico e Forza Italia, cioè la soluzione di cui nessuno parla ufficialmente, la carsica opzione tre.
A Veltroni servirà dunque coraggio, perché se Gianni Letta, eminenza grigia di Silvio Berlusconi, può parlare liberamente della necessità di “una vasta coalizione per le riforme”, altrettanto non può permettersi l’omologo veltroniano Goffredo Bettini. Il suo leader però dà incoraggianti segni di impazienza. Come quando ribadisce che “il Pd può correre da solo alle elezioni”.
Nel frattempo, fra i veltroniani, il coraggio non manca a Peppino Caldarola, che a Panorama spiega: “Quella delle larghe intese è l’unica possibilità per tirare fuori il Paese dal disastro. Il rifiuto di raggiungere un accordo utile a tutti porta l’Italia al collasso. Le forze maggiori hanno quindi il dovere di evitarlo, raggiungendo un accordo che riguardi anche la possibilità di far nascere un governo sostenuto da entrambi”.
Caldarola, da cronista di razza, coglie la direzione del vento politico e si spinge oltre: “Un ulteriore passaggio può essere addirittura quello di una campagna elettorale in cui le due forze maggiori propongono agli elettori un governo di tregua”. E questa sarebbe l’opzione quattro.
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